La forma dell’oro. 12/12 – Jean Bedez
30.11.2021 – 31.12.2021
Jean Bedez
Sans Titre [Senza titolo], I, II, III, 2021
gesso, oro
7 x 23 x 13 cm cad.
Atlas Portant le Monde [Atlante sorregge il mondo], 2021
disegno a pigmenti naturali e carboncino su carta
133 x 98 cm
Hercule Tuant Cacus avec une Massue [Ercole uccide Caco con una clava], 2021
disegno a grafite su carta
108 x 83,5 cm
BUILDINGBOX presenta dal 30 novembre al 31 dicembre 2021 un’installazione di opere dell’artista francese Jean Bedez (Colmar, 1976), dodicesimo artista de La forma dell’oro, progetto espositivo annuale a cura di Melania Rossi, che indaga l’utilizzo dell’oro nella ricerca artistica contemporanea attraverso le opere di dodici artisti invitati a misurarsi con il tema prescelto. Le installazioni sono visibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7 dalla vetrina di via Monte di Pietà 23 a Milano. In mostra, tre sculture appositamente realizzate dall’artista e due grandi disegni, uno realizzato completamente a grafite e l’altro con pigmenti naturali.
Jean Bedez prende ispirazione dal mondo antico, dal mito e dalla scultura greca classica, che diventano metafore per sviluppare opere in sintonia con i tempi, confrontandosi con le tecniche più antiche dell’arte plastica e del disegno. Questa ricerca dell’artista si collega al tema espositivo rievocando il mito dell’età dell’oro, sogno utopico che risale agli albori del genere umano.
Il poeta greco Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) è il primo a cantare la stirpe aurea, vissuta in perfetta armonia, senza conoscere affanno né dolore, a cui la natura donava i propri frutti spontaneamente e in abbondanza. Dopo il furto del fuoco da parte di Prometeo, a cui segue la creazione da parte degli dei di Pandora, la prima donna, inizia il progressivo declino della stirpe umana: l’argentea bellicosa, la bronzea violenta, quella degli eroi dedita solo alle guerre e infine la stirpe ferrea, la peggiore di tutte. La fortuna letteraria e artistica del mito è ben nota. Da Platone a Nietzsche, da Michelangelo a Cranach, fino a Gauguin che andò fisicamente a cercare il paradiso perduto a Tahiti, l’idea è stata ripresa da filosofi, scrittori e artisti come allegoria del decadimento del tempo presente rispetto a quello passato, così come della costante ricerca di un idillio di pace e prosperità che attraversa ciclicamente ogni epoca.
Nei lavori in mostra, Jean Bedez rielabora immagini tratte dalla statuaria classica, a loro volta ispirate ai miti delle fatiche di Ercole e Atlante, metafore della condizione umana a seguito della sua involuzione dalla stirpe dell’oro a quella del ferro. Le possenti figure incomplete possiedono la verticalità distintiva della tradizione rappresentativa occidentale, che vede l’uomo teso verso l’eterno ultraterreno e verso l’esplorazione dei misteri dell’universo, ma sono impegnate in azioni che le riportano inesorabilmente al suolo, alla fatica dell’esistenza mortale. L’artista suggerisce un’idea del tempo non lineare, in cui passato, presente e futuro si compenetrano, rappresentando eterne lotte tra giganti in paesaggi e atmosfere da origine (o fine?) del mondo. La tecnica del disegno a grafite, utilizzata sapientemente da Bedez su grandi dimensioni, accresce l’armonia estetica delle opere, in cui il complesso impianto concettuale passa attraverso la bellezza oggettiva e decifrabile del lavoro.
L’oro appare come elemento fisico nella serie di tre piccole sculture in gesso che rappresentano un toro mancante di varie parti del corpo. La doratura evidenzia la drammaticità delle amputazioni, ma allo stesso tempo rende preziose le assenze, i vuoti lasciati da ciò che si è perso nel tempo. Il toro è oggetto di culto in molte civiltà sin dall’età della pietra, fino agli antichi Egizi e all’iconologia cristiana, ma è anche un’importante figura mitica che attraversa parallelamente tutte le epoche. Jean Bedez rievoca poeticamente il significato mitico di questo animale, dalla lotta alla pari contro l’eroe al suo addomesticamento nelle età successive a quella dell’oro, quando diviene schiavo dell’uomo nel duro lavoro dei campi, facendosi emblema dei rapporti di dominio della nostra società.